
Le tecniche di ingegneria dell'antica Roma possono insegnarci delle pratiche più sostenibili
“Regina aquarum”, ovvero “regina delle acque”: così veniva definita l’antica città di Roma grazie alla sua relazione speciale con l’acqua. Una relazione così stretta che portò la città a munirsi di terme, bagni pubblici, pozzi, ville e fontane. Questo sviluppo urbano fu reso possibile grazie al complesso sistema degli acquedotti, un volano di ingegneria romana che possiamo ancora ammirare oggi, a 2000 anni di distanza. Per secoli il Tevere è stata la fonte idrica principale per la città di Roma; fu la successiva crescita demografica ad accrescere il fabbisogno dell’acqua, esigenza che avviò l’imponente costruzione di ingegneria pubblica e culminò con la realizzazione della rete degli acquedotti di Roma. Queste costruzioni si diffusero dapprima tra le popolazioni assire, egiziane, indiane e persiane. I romani in seguito padroneggiarono la tecnica e edificarono 800 chilometri complessivi di condotte. Frontino, il “curatur acquarum” (il curatore delle acque), scrisse nel 97 a.C.: “A tali costruzioni, necessarie per così ingenti quantità d’acqua, oseresti paragonare le inutili piramidi d’Egitto oppure le opere dei Greci tanto famose quanto improduttive?”.
Milano deve a sua volte le sue origini all’abbondanza di acqua e alle straordinarie competenze raggiunte in età romana nella gestione dei flussi idrici sotterranei. “Le vie dell’acqua a Mediolanum” è una mostra aperta fino al 31 marzo 2024 al Museo Archeologico di Milano che evidenzia i legami tra l’antica Mediolanum e l’acqua. L’esposizione, nata in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Milano, con il contributo scientifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – Dipartimento di Storia, Archeologia e Storia dell’Arte, indica gli usi e i sistemi di gestione dell’acqua in epoca romana, mettendo in mostra 300 reperti inediti rappresentati da oggetti d’uso quotidiano e di pregio, quali gioielli, affreschi e sculture.
Cosa determina la durabilità delle costruzioni romane? Il professore del prestigioso MIT di Boston, Admir Masic, ex profugo bosniaco che ha studiato chimica in Italia, ha scoperto la formula a base di calce viva che ha permesso alle costruzioni dell’Antica Roma di autoripararsi e conseguentemente a resistere fino ai giorni nostri. Il procedimento si chiama “Hot Mixing” e consiste nell’aggiunta della calce viva al calcestruzzo, che reagendo con l’acqua riscalda la miscela. La tecnica porta alla formazione di “granelli” di calce, che poi permettono l’autoriparazione. A valle della scoperta, Marsic insieme a Paolo Sabatini, esperto di affari internazionali con un’esperienza alla Nazioni Unite alle spalle, hanno fondato DMAT. “DMAT vuol dire “dematerialize” perché puntiamo a dematerializzare il calcestruzzo” spiega Sabatini. “Si tratta di un materiale che costa poco ed è molto semplice da utilizzare, che però ha due grandi problemi: la sostenibilità e la durabilità. Noi non distribuiremo sacchetti di calcestruzzo, ma tecnologia. Venderemo ai nostri clienti formule che permetteranno di creare il nuovo calcestruzzo che si autoripara, dura più a lungo e riduce la CO2. Si tratta di trasferimento tecnologico e ci permetterà di agire su scala globale“. La gestione dell’acqua ha determinato la fortuna dell’impero dell’antica Roma; a due millenni di distanza queste tecniche possono insegnarci delle pratiche che sono maggiormente attente all’ambiente e che possono ottenere la riduzione delle emissioni fino al 20% per il mercato del calcestruzzo.
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